“Lo spazio pubblico non è di chi lo amministra, né di chi se lo prende di prepotenza: è proprietà di tutti.” – intervista a Diavù, lo street artist dietro il M.u.Ro

“Lo spazio pubblico non è di chi lo amministra, né di chi se lo prende di prepotenza: è proprietà di tutti.” – intervista a Diavù, lo street artist dietro il M.u.Ro

Intervista a cura di Sara Fabrizi

Quali influenze sono alla base del tuo peculiare stile e in particolare quanto conta per te la “scuola americana” e il graffitismo nella sua forma primitiva?

Intervista a Diavù, lo street artist dietro il M.u.Ro
David Vecchiato, street artist

È dura estrapolare influenze assorbite in passato osservando ciò che dipingo e disegno oggi, ma provengono senz’altro dall’arte classica quanto da quelle che vengono definite arti “minori”. Da grandi autori di fumetto come Segar, Jacovitti, Magnus e Andrea Pazienza e da artisti come Bosch, Hokusai, Grosz, Picasso e Haring, ma anche da cartoonist come Winsor McCay, Tex Avery, Dave e Max Fleischer, John Kricfalusi e i fratelli Pagot. E chissà da quali e quanti altri. La “scuola americana” dell’arte underground dagli anni 60 in poi, da Ed “Big Daddy” Roth, Robert Crumb, Robert Williams, ecc, quindi la Lowbrow Art, l’ho sempre sentita una forma d’arte vicina alla mia. Il Writing l’ho seguito fin da fine anni 80, quando ancora era parte della cultura Hip Hop, ma io non ero un writer, piuttosto li fotografavo i pezzi, compravo le fanzine o le barattavo con quelle che producevo io, e pochi anni dopo avrei condiviso con vari writers i muri dei centri sociali in cui esponevamo io i miei disegni e loro le foto dei loro treni dipinti. Rispetto il Writing per la sua importanza sociale che purtroppo non si studia a scuola mentre si dovrebbe, e per la sua importanza seminale nella nascita di quella che chiamiamo Street Art. Nel periodo di massimo splendore poi è stato fondamentale culturalmente sia nello ‘sbloccare’ i muri delle città, che prima che se ne appropriassero i writers erano solo spazi di affissione delle pubblicità e delle amministrazioni, sia nel contribuire all’integrazione tra bianchi, immigrati e afroamericani quando hanno iniziato a condividere tra loro una cultura. Come artista mi sono formato ammirando anche i primi artisti che hanno fatto propri i codici del Writing, come Haring o Basquiat, quindi sono ovviamente grato a questa pratica.
 
Come procedi di solito nella scelta dei soggetti delle tue composizioni e a cosa ti ispiri maggiormente?

Ovviamente è il concetto, l’idea, che mi spinge a concretizzare un’opera, e raramente parto da un soggetto solo perché mi affascina la forma. Ad esempio, ho dipinto i ritratti di Monicelli, Pasolini, Anna Magnani e i fratelli Citti davanti al Cinema Impero a Roma che è chiuso da fine anni 70 non perché mi interessassero particolarmente i loro volti noti, ma perché li ho ritenuti, in accordo col Comitato di Quartiere di Torpignattara, i simboli che avrebbero potuto contribuire a riaprire quel luogo, in quanto hanno girato film o vissuto in quella zona. Quando il proprietario dopo i vari servizi Rai, i vari articoli usciti sui giornali e l’insistenza del Comitato di Quartiere ha deciso di riaprire una parte dell’Impero per dare ospitalità a una scuola di teatro e danza, ho visto l’opera d’arte finalmente completa, proprio perché l’idea dell’opera era riaprire quel luogo anche grazie ai miei dipinti. Credo che nell’arte pubblica queste riflessioni su come un’opera d’arte possa influenzare un territorio e una comunità siano appropriate.
Un altro esempio sono le scalinate che sto dipingendo ora. Il concept è nato dal sogno di trasformare le scalinate di Roma in ‘monumenti’ alle donne. Quest’idea è l’opera arte, tutto il resto è manovalanza per renderla reale.

Intervista a Diavù, lo street artist dietro il M.u.Ro
Diavù al lavoro per l’Ossigeno Festival, estate 2015

 
Come ti senti a collaborare con le istituzioni visto che la street art per antonomasia è nata in contrapposizione ad esse come movimento “anarchico”? Quanto ha influenzato la tua espressione artistica?

Lo spazio pubblico non è di chi lo amministra, né di chi se lo prende di prepotenza: è proprietà di tutti. Per questa mia convinzione quando ho iniziato a fare murales in strada per il MURo Museo di Urban Art di Roma nel 2010 ho contattato il Municipio V per domandare l’autorizzazione a dipingere i muri pubblici – anche miei – così come ho contattato i proprietari per le autorizzazioni a dipingere i muri privati – anch’essi parte di un panorama che definisco pubblico, indipendentemente dalla proprietà dell’edificio – senza “collaborare” nei fatti né con l’uno né con l’altro. In entrambi i casi il rapporto si è limitato al dialogo, ovvero a mostrargli le bozze per far autorizzare gli interventi, sia i miei che quelli degli artisti miei amici e ospiti. Mai nessuno ha chiesto modifiche (anche perché avrebbero dovuto motivarle, i nostri murales non sono mica commissioni) o meglio, solo una volta per questioni di fede calcistica ci hanno fermati, quando l’artista francese Veks Van Hillik aveva proposto una zebra e la parte della popolazione del quartiere Quadraro che interpellammo la bocciò perché simbolo della Juventus…allora nacque il murale delle rane di via dei Quintili. Io di calcio non capisco niente, figurati Veks che è di Tolosa quanto aveva potuto pensare ai colori delle squadre italiane, ma è ovvio che quando si fanno interventi in strada non temporanei va coinvolta soprattutto la popolazione, perché i murales restano dove quelle persone abitano o lavorano dunque devono in qualche modo riconoscersi nelle opere che guardano ogni giorno e non sentirle ostili.

Intervista a Diavù, lo street artist dietro il M.u.Ro
Le rane dell’artista francese Veks Van Hillik, progetto M.uRo

Quel dipinto sarebbe diventato un simbolo del loro territorio e la zebra non gli andava proprio giù, e questa è una buona ragione per non farla. Dunque è il confronto coi cittadini che influenza spesso la mia espressione, non certo l’istituzione, qualsiasi essa sia. E aggiungo per fortuna che l’influenza, perché io all’artista genio che va lasciato solo a creare sul piedistallo senza essere disturbato ci credo poco. Grandi opere d’arte del passato sono state realizzate da artisti che avevano il fiato sul collo dei committenti, altro che geni liberi e solitari! Io stesso sotto stress e in lotta coi committenti produco meglio. Mi è capitato di “collaborare” più concretamente con le istituzioni quando col MURo abbiamo partecipato a bandi pubblici, ma se ognuno sta al suo posto e se eviti di farti strumentalizzare politicamente non vedo il problema di aprire un dialogo con queste. Se il MURo vince un bando so che investe soldi pubblici con giudizio e ottimi risultati, dal momento che gli interventi di Urban Art siamo abituati normalmente a farli gratis, figurati. Riguardo poi “l’anarchia” della Street Art, tolta la fase Writing in cui chi dipingeva non cercava la notorietà, in molti casi è servita – quasi come forma di marketing – a diffondere il più possibile il lavoro degli artisti più apparentemente “ribelli” lanciandoli come dei brand, e in questo non ci vedo granché di anarchico, vedo se mai applicate più o meno bene le logiche del commercio e della colonizzazione degli spazi. Anarchico, ma comunitario, per me è pretendere dalle istituzioni quegli spazi che sono di tutti e poi discutere coi cittadini delle opere d’arte che ci si andranno a realizzare, perché una riappropriazione degli spazi urbani attraverso la cultura oggi vale di più della rappresentazione di un’icona trasgressiva che spesso ricalca avanguardie del passato come il Dadaismo, la Pop Art o il Punk. E lo dico senza alcun giudizio, lo ritengo un dato di fatto.

 
“Art Pollinates Quadraro”: l’arte feconda il Quadraro. Quanto c’è di utopico in questo progetto e quanto credi che la street art e l’arte in genere possa rivitalizzare un quartiere storico e complesso come il Quadraro?

L’utopia è ciò che sveglia al mattino gli artisti, non ti alzi nemmeno dal letto se non hai un nuovo sogno che hai la necessità di realizzare. Il murale “Art Pollinates Quadraro” è un manifesto, una dichiarazione di intenti, è la bozza iniziale risalente al 2010 del progetto di Museo di Urban Art MURo, tradotta in una sola immagine. Gli spermatozoi colorati che dipinsi all’epoca sono gli artisti che visitano il quartiere lasciando le loro opere, oppure sono le opere stesse che riempiono il quartiere, ma possono essere anche le storie che gli abitanti raccontano agli artisti influenzandoli nella realizzazione di queste. Fecondare è comunque il risultato di un’unione tra due elementi diversi che genera qualcosa di nuovo, che è frutto dell’uno quanto dell’altro. Io non ho mai voluto rivitalizzare o, peggio, ‘riqualificare’, un quartiere o un territorio. Non è questo il mio mestiere, io sono un artista, io creo mondi e non mi occupo di manutenzione ordinaria o straordinaria delle strade. Quando ho messo in pratica la mia idea MURo volevo solo far incontrare il mondo dei miei nonni materni e della famiglia di mia madre, ovvero quel mio quartiere dell’infanzia così popolare, verace e ricco di storie che vanno altrimenti perdute, con il mio di mondo, quello della mia arte e degli amici artisti italiani e internazionali con cui ho lavorato. Io sono tornato a vivere al Quadraro dopo 25 anni di assenza, che accadesse qualcosa era inevitabile. Non credo che l’arte possa rivitalizzare un quartiere dunque, ma so che può cambiare la testa a molte persone che ci vivono.

Ci sono stati una serie di atti vandalici e tu hai cercato di rispondere a queste provocazioni: cosa pensi che ci sia alla base di queste manifestazioni?

Intervista a Diavù, lo street artist dietro il M.u.Ro
Uno dei murales vandalizzati, progetto M.u.Ro

Un’opera d’arte realizzata in strada è soggetta a qualsiasi mutazione, dalle scritte politiche o d’amore, alle tag, allo sberleffo dell’opera stessa, questo qualsiasi artista che lavora fuori dovrebbe saperlo ed averci fatto pace. Sta poi ai cittadini decidere cosa fare delle opere urbane che gli artisti gli lasciano, se proteggerle e restaurarle oppure lasciarle deturpare, se insomma difenderle o ignorarle.
Il progetto MURo ovviamente non teme chi vandalizza le opere, lo ingloba anzi, perché il gesto del ‘vandalo’ diventa suo malgrado anch’esso parte dell’opera, perché i murales non possono restare come immobili ‘cartoline’ sotto vetro, mutano inevitabilmente assieme allo spazio circostante. Quello che mi fa più ridere è quando i giornalisti ci costruiscono il caso su qualcuno che imbratta dei murales. Ridicolo. Riguardo gli atti vandalici specifici al progetto MURo di cui parli tu quelli sono di un ragazzo un po’ iconoclasta in cerca di fama che conosciamo tutti bene in zona. Si professa di sinistra esprimendo concetti di estrema destra. Ha usato poi il tema della ‘gentrification’ accusando i murales di far salire di prezzo le case in automatico, quindi di provocare sfratti e altre tragedie sociali, e in questa sua fiaba qualcuno del Quadraro gli ha anche dato ascolto lo scorso anno per qualche mese. Ma la gentrification è un processo molto complesso che non fermi certo tenendo un quartiere nel degrado o nell’immobilità, anzi, se vuoi che il tuo quartiere muti (e la città muta sempre e velocemente, è fisiologico) in una direzione più condivisa da chi lo vive devi contribuire al suo cambiamento mettendoci la faccia, collaborando con più concittadini possibili e tirandoti soprattutto su le maniche.

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David Diavù Vecchiato al lavoro durante la giornata contor la violenza sulle donne, Piazza del Popolo, 2014

Il Comune di Roma insieme all’associazione 999 contemporary ha promosso una larga diffusione del fenomeno della street art e anche la nostra associazione tramite il web, gli articoli e le gallerie fotografiche ha cercato di promuovere questa forma d’arte: qual è il tuo giudizio su questo enorme interesse nell’ultimo periodo?

Il mio giudizio è che – come in ogni fenomeno quando diventa di massa – anche in questo si sta cominciando a fare un po’ di confusione. Per farti un esempio, è indubbiamente importante che il Comune di Roma abbia sposato la causa della Street Art, ma quando poi parla di “riqualificare” aree urbane attraverso l’arte sbaglia a trattare quasi come sinonimi due termini tanto lontani come arte e riqualificazione urbana. Come dire che appendendo il tuo nuovo quadro sul muro di casa hai risolto i guasti all’impianto idraulico che allagano l’appartamento di sotto. Un po’ ingenua come visione, o meglio è ingenuo credere che gli altri ci credano. La 999 è stata molto veloce e ha realizzato interventi molto evidenti, alcuni a me personalmente piacciono e altri meno, ma sono poi tante le realtà che lavorano in questo ambito e da molti anni, a Roma come in Italia. Riconosci quelle più storiche dal fatto che collaborano ancora sul principio dell’amicizia. Comunque oggi queste realtà produttrici di arte urbana aumentano a vista d’occhio, dunque gli intenti per cui si fa arte in strada cominciano ad essere sempre meno semplici e comprensibili. C’è chi lo fa perché spera di riattivare socialmente un’area urbana e chi perché spera di farci i soldi – magari pubblici, chi per stimolare turismo, chi per lanciare messaggi umanitari, chi per amore della collaborazione, chi per emergere sugli altri, chi perché ha un progetto in testa e chi perché invece ha solo un sacco di tempo libero che non sa come impiegare e gli piacciono tanto i colori. Poi ci sono le istituzioni che vogliono metterci il cappello e quelle che invece ancora osteggiano il fenomeno. Insomma, proprio col desiderio di fare un po’ di chiarezza, prima di tutto a me stesso, su quanti e quali possono essere i motivi principali per i quali si fa oggi arte in strada ho realizzato una serie di 8 documentari che andranno in onda da metà settembre su Sky Arte con grandi nomi internazionali ospiti di altrettanti luoghi italiani. La serie di chiamerà proprio “Muro”. E così promuoverò anch’io ancora di più questa forma d’arte, mio malgrado.

 

 

 

Sara Fabrizi

Sara Fabrizi

Classe '92, laureata in Filologia Moderna all'Università di Roma "La Sapienza", redattrice per NéaPolis e Tutored. Gestisco due blog "Parole in viaggio" dedicato all'arte e ai luoghi d'Italia e "Storie dal cassetto", raccolta di racconti brevi soprattutto a carattere psicologico. Un mio racconto "Il battesimo del fuoco" è stato selezionato e pubblicato nell'antologia "I racconti di Cultora. Centro-sud" seconda edizione per Historica edizioni nel 2015. Sono membro fondatore dell'associazione "La parola che non muore" e responsabile dell'ufficio stampa per il Festival omonimo a Civita di Bagnoregio, inaugurato nel 2015.