Tra la luce e i colori, l’evoluzione della pittura di Monet attraverso il suo giardino di Giverny

Tra la luce e i colori, l’evoluzione della pittura di Monet attraverso il suo giardino di Giverny
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È stata prorogata fino al 3 giugno la mostra ospitata dal 19 ottobre 2017 al Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, di Roma tanta è la curiosità del pubblico di ammirare le sessanta opere di Claude Monet provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi. Si tratta delle stesse opere che il pittore conservava nella sua amata casa di Giverny, immersa in un magnifico giardino creato da lui stesso.

All’inizio della mostra, le caricature che il pittore realizzava appena quindicenne a scuola stupiscono gli ospiti del museo, certamente non abituati a un Monet caricaturista. Nella parete opposta il pittore è presentato invece come ritrattista di famiglia – il figlio Michel Monet è il soggetto principale – e qui il visitatore riconosce l’utilizzo e l’interesse dell’artista per lo studio dei colori più che per la fisionomia dei volti ritratti, spesso abbozzati.

Nella sala successiva inizia chiaramente a emergere lo stile nebuloso del pittore francese: Vétheuil nella nebbia (1879) mostra l’effetto del freddo e dell’acqua. Lo scrittore Maupassant definisce Monet cacciatore di soggetti in virtù della sua inarrestabile voglia di viaggiare e della mania di rappresentare in cinque o sei tele diverse lo stesso soggetto in diverse ore del giorno per immortalarne gli effetti di luce. La Valle della Creuse (1889) dipinta più di venti volte in tre mesi, è un’armonia di tonalità e di pennellate multicolori dove il sole è talmente forte che macchia di giallo anche il mare.

Monet rappresenta nelle sue tele le atmosfere: la nebbia è resa con i toni del verde e del rosa e il nero è bandito, così che emergano forme, luci e colori. Studia i riflessi sull’acqua, si impegna a rappresentare vorticose chiazze di colore e dà conto del cambiare delle condizioni luminose da un minuto all’altro: ecco che allora lo specchio d’acqua che tanto gli interessa muta come i brandelli di cielo gli si riflettono sopra.

Al piano superiore, la mostra offre la visita a un giardino di colori, più che di fiori. È la spazialità infatti a interessare Monet, più che i fiori di per sé, come emerge dai Paesaggi acquatici ispirati al suo giardino di Giverny, dove il pittore fa costruire anche uno stagno per le ninfee.

Le pennellate sono sempre più libere e fluide e il pittore non usa più i cartoni preparatori. Nelle tele compaiono ponti giapponesi e salici piangenti, con giochi di luce che si susseguono nella chioma, mentre la pennellata si modifica nelle varie versioni fino a diventare astratta.

Le rose rampicanti si presentano come archi concentrici la cui sequenza indica la profondità. Il risultato è un caleidoscopico pergolato di intrecci e di filamenti variopinti. Le rose si trovano anche nell’ultimo dipinto di Monet: la purezza della tavolozza riprende gli essenziali toni del blu e del rosa. Il soggetto è semplice, ma il grande ramo fiorito rimanda simbolicamente alla fragilità del mondo effimero. L’originalità dell’artista sta anche nella scelta di rappresentare un semplice ramo fiorito in una tavola di grandi dimensioni, normalmente dedicata a soggetti storici: questo valse al suo dipinto la fama e il nome di cappella sistina dell’impressionismo.

La mostra si conclude con l’esposizione di una serie di tele monumentali, donate allo stato alla fine della Prima Guerra Mondiale con un solo soggetto, appunto, il giardino acquatico di Giverny. La tela che ritrae i glicini del ponte giapponese e le ninfee è alta un metro e larga tre. Rispetto ai fiori esposti nelle sale precedenti è palese la differenza di fattura: i glicini sono rarefatti e la pittura a olio è impiegata da Monet come se fosse acquarello.

Dispiace terminare la visita e uscire dal giardino di Monet, ma è rassicurante pensare che se fuori c’è l’inverno, in un angolo di Roma si può respirare la primavera.

Simona Di Martino

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Redazione Nèa Polis

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