La teoria del tutto o “i sentimenti dietro la scienza”

La teoria del tutto o “i sentimenti dietro la scienza”

Sulla scia delle biografie che hanno affollato le sale cinematografiche recentemente, c’è anche quella sul grande astrofisico, matematico e cosmologo britannico Stephen Hawking: dopo anni di sue apparizioni reali (Big Bang Theory) o caricaturiali (vedi i Simpson), anche il pubblico più profano viene a conoscenza di chi sia questo uomo di scienza, ma ahimè, anche uscito di sala, ancora non ha ben chiaro che idee abbia avuto.

Malgrado la malattia del motoneurone che da anni lo ha confinato alla sedia a rotelle da cui comunica tramite un sintetizzatore vocale, Stephen Hawking è il fautore di teorie rivoluzionarie come la radiazione termica emessa dai buchi neri, detta radiazione di Hawking, che si iscrive nei numerosi studi sulla termodicamica dei buchi neri; la teoria cosmologica, chiamata di Hartle-Hawking, sull’inizio senza confini dell’universo (quella che viene tratteggiata nel film), e l’elaborazione di numerose teorie fisiche e astronomiche con altri scienziati, come la formazione ed evoluzione galattica, l’inflazione cosmica e il multiverso. Hawking è membro della Royal Society, della Royal Society of Arts e della Pontifical Acedemy of Science e ha occupato per quasi trent’anni la cattedra lucasiana di matematica a Cambridge. Nel 2009 Obama lo ha insignito della Medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza degli Stati Uniti.

The Theory of Everything è invece un film diretto da James Marsh, che ha già trattato di uomini che superano i limiti, nel documentario premio Oscar Man on Wire – Un uomo tra le torri, e anche la biografia del grande astrofisico inglese, dopo 2 Golden Globes, concorre domani all’ambita statuetta con 5 candidature come miglior film, sceneggiatura non originale e colonna sonora, più le due candidature degli attori principali.

Felicity Jones (The amazing Spiderman 2) e Eddie Redmayne (I miserabili) sono infatti candidati come migliori attori e non posso negare loro queste nomine: la Jane di Felicity Jones appare delicata come un fiore e forte come l’acciaio, Eddie Redmayne dona un’infinita dolcezza e dignità alla figura del geniale scienziato che, pare, abbia versato anche lui una lacrime alla prima del film. Tra l’altro Redmayne è un ottimo amico del bravissimo Benedict Cumberbatch, di cui abbiamo visto l’interpetazione eccelsa nel precedente articolo su The Imitation Game, il quale ha interpretato l’astrofisico inglese nel film TVHawking  del 2004 per la BBC, affermandosi come il primo attore ad aver portato lo scienziato sullo schermo.

La sceneggiatura di The Theory of Everything, scritta da Anthony McCarten, è l’adattamento del libro di Jane Wilde, ex signora Hawking, Travelling to Infinity: My Life with Stephen ed è costato, oltre ai 15 milioni di dollari stimati per la realizzazione, quasi tre anni di lavoro con la donna per giungere a quello che si rivela essere un ritratto a scopi monumentale di Hawking, come tutte le biografie d’altronde.

Tuttavia, ciò che questo film racconta altro non è che la storia d’amore tra lo scienziato e la sua prima moglie, un amore nato nel periodo giovanile di Cambridge e proseguito fino alla separazione nel 1990. Così dal primo incontro, con un Hawking in ottima forma che corre e pedala, fino all’addio dalla seria a rotelle parlante, è di amore e solo di amore che si parla.

Siamo nel 1963 nella prestigiosa università di Cambridge: il promettente ventunenne laureando in fisica Stephen, che ha iniziato il college a 17 anni, è un fervido  appassionato di cosmologia, “la religione per atei intelligenti”, quando incontra ad una festa la religiosa Jane Wilde, studentessa di lingue romanze. È amore a prima vista: iniziano una relazione dolce e innocente che ben presto affronta la tempesta di una malattia neurodegenerativa che concede due anni di vita al giovane scienziato. Jane però non lo abbandona e si immola sull’altare dell’amore sacro aiutando Stephen a mangiare e a togliersi il maglione mentre lui cambia la storia della scienza e tenta di elaborare una singola equazione significante che riesca a spiegare l’universo. La sua vita, tra sofferenze e continui peggioramenti non finisce e grazie alla nuova famiglia con Jane e i loro tre figli e agli studi che proseguono, Stephen supera di gran lunga le aspettative di vita previste. Della sua folgorante carriera di intellettuale apprendiamo bene poco, mentre è della malattia e della storia della sua famiglia che il regista preferisce ricostruire la formula: la dedizione di Jane è straordinaria e dura anni, affronta la sedia a rotelle e il mutismo definitivo causato dalla tracheotomia, fino all’incontro con un altro uomo che contribuirà ad allontanarla dal marito. Anche dopo la separazione però, Jane e Stephen restano amici affezionati e dopo il viaggio di lui in America con la sua nuova compagna, l’infermiera Elaine, è alla corte della regina d’Inghilterra che hanno modo di dare uno sguardo d’insieme a tutto ciò che sono riusciti a creare.

Il titolo del film potrebbe allora risultare uno specchietto per allodole per i fisici e matematici che accorrono in sala, rivelandosi più una storia intrisa di lacrime e sentimenti, che di universo e scienza. Le frasi promozionali del film recitavano: “The incredible story of Jane and Stephen Hawking e “His mind changed our world. Her love changed his.” Frasi belle per carità, piene di carico emotivo, ma un pochino banali. Delle premesse, l’unica parte che vediamo rappresentata sullo schermo è “her love changed his (mind)”: come in ogni grande storia d’amore, ci si aiuta l’un l’altro, ci si sacrifica, si fa di tutto per trasmettere la propria forza al compagno nei momenti di difficoltà. Bello, bellissimo ancora una volta, ma l’iniziale “the incredible story” decantata, inizia a venire meno; meglio ancora, è incredibile quello che l’amore possa fare alle persone, quanta forza possa trasmettere, ma è vero anche che la storia di Hawking è purtroppo simile a quella di milioni di malati di SLA, persone che non hanno un film ad omaggiarli, ma “solo” l’affetto di quanti sono loro accanto.

The theory of everything è allora un film che omaggia la vita personale di uno scienziato che non mi stanco di definire geniale, ma che avrebbe potuto essere tranquillamente proiettato sullo schermo di casa sua a scopo esclusivamente domestico. Se l’intento non era comunque dare un taglio scientifico, sicuramente meno appetibile o tantomeno comprensibile per il 90% degli spettatori, il regista avrebbe potuto almeno concedere una rilfessione in più alla condizione dei malati di sclerosi laterale amiotrofica, di cui Hawking è un legittimo rappresentante. Il suo film però non mira a parlare di tanti disabili, ma di uno solo, l’unico che abbia teorizzato i buchi neri e la nascita dell’universo, ma ancora nella prospettiva dell’uomo malato e amato, l’unico senso in cui emerge nel film l’aggettivo “straordinario”. Voglio allora dire che il film parte dal presupposto di omaggiare un genio ma più in quanto disabile che genio, per arrivare a lasciare il messaggio che anche la situazione peggiore può essere affrontata, messaggio che nella sua positività mi induce a non condannare in toto il tentativo di Marsh.

Accettato il punto di vista del regista allora, il film è un meraviglioso ed edificante ritratto di amore e sentimenti, correlato da pianti e strette al cuore, in cui le difficoltà  si superano perché ci sono sempre  l’amore indistruttibile e la forza d’animo, peccato perà che la carne sia debole. Ecco allora la bravissima Felicity Jones cadere tra le braccie del gentile capo coro della chiesa Jonathan Jones (Charlie Cox), dopo quasi un’ora di sguardi dolci e sfiorate di mano pudiche: ovviamente, per dare maggiore teatralità alla vicenda, la passione si accende nella galeotta tenda di un campeggio proprio mentre Hawking, all’opera di Bordeaux, viene colto da polmonite a ritmo di musica classica. Questa libertà biografica non poteva proprio essere trattenuta da Marsh, come anche la scommessa in realtà persa dal cosmologo inglese con Kip Thorne (ricordate le teorie diInterstellar?) su un’enciclopedia del baseball e non sull’abbonamento ad una rivista porno. Ma nel mondo del cinema possiamo perdonare simili inesattezze: un po’ meno perdoniamo l’eccessivo sentimentalismo in un’opera che potremmo definire anche con il titolo “malgrado il film, Stephen Hawking è un scienziato davvero straordinario”. Ma torniamo ad accettare il punto di vista del regista.

Nel frattempo nella storia rappresentata, come in tutte le relazioni più comuni, l’amore tra Jane e Stephen  viene meno quando viene meno la comunicazione, letteralmente: costretto ad esprimersi con una lavagnetta e poi con un computer dallo spiccato accento americano, Jane non è più in grado di parlare la stessa lingua del marito, cosa che riesce invece all’infermiera che subentra ad assisterlo.

Un argomento che anche a livello personale dei due coniugi meritava comunque un approfondimento. era a mio parere il diverso rapporto con la religione che marito e moglie intrattengono: mentre infatti inizialmente lo scienziato ha un piccolo problema con la premessa della dittatura celeste, alla loro ultima conversazione come coppia nel film, si lascia quasi intendere che Stephen non abbia scartato del tutto l’idea di Dio.

Nell’ultima e commuovente scena, in cui Hawking immagina di alzarsi dalla sedia su cui è confinato durante una conferenza negli Stati Uniti, assistiamo ad una risposta che riassume i 123 minuti di film:

Ospite:“Professor Hawking, lei ha detto di non credere in Dio… Ha una filosofia di vita che la aiuta?”

Stephen: “E’ chiaro che noi siamo solo una razza evoluta di primati su un pianeta minore, che orbita intorno ad una stella di medie dimensioni nell’estrema periferia di una fra cento miliardi di galassie… Ma fin dall’alba della civiltà, l’uomo si è sempre sforzato di arrivare alla comprensione dell’ordine che regola il mondo. Dovrebbe esserci qualcosa di molto speciale nelle condizioni ai confini dell’universo. E cosa può essere più speciale dell’assenza di confini? Non dovrebbero esserci confini agli sforzi umani. Noi siamo tutti diversi, per quanto brutta possa sembrarci la vita, c’è sempre qualcosa che uno può fare e con successo. Perché finché c’è vita… c’è speranza!”

Insomma, The theory of everything è un omaggio a Stephen, più che a Hawking, all’uomo affetto da una malattia rara, più che allo scienziato brillante e unico nel suo talento, ma anche alla donna Jane, alla sua forza, al suo coraggio e, di nuovo, all’amore che tutto può e tutto fa.

 

Anche se qui è lo stesso scienziato ad ammettere quanto piccoli e insignificanti siamo davanti all’immensità che ci circonda, alla fine della proiezioni ho avuto un déjà vu dell’idea di fondo che emerge anche tra i buchi neri descritti del fantascientificoInterstellar: non importa quanto lontano nella galassia proviamo ad esplorare, siamo sempre noi a custodire nel nostro cuore la chiave di volta dell’universo.

(Per rinfrescarvi la memoria: https://www.neapolisroma.it/?q=cinema-cultura-nea-cinema/interstellar-mille-volti-delluomo-attraverso-buchi-neri-stelle-e-nuove)

Dopo una profusione di lacrime e riflessioni involontarie sulle incredibili difficoltà che una malattia limitante e tragica come quella descritta procura nella vita delle persone, il film commuovente e umano di Marsh non poteva allora che lasciarci con un messaggio come “finchè c’è vita c’è speranza”: speriamo allora che la singola equazione significante che spiega l’universo sia davvero l’amore, perché, almeno al cinema, a rappresentare questo sentimento siamo davvero tutti dei geni.

 

Alessia Agostinelli

Alessia Agostinelli

Alessia Agostinelli

Laureata in filosofia e amante del cinema e della letteratura, sempre in giro per il mondo all'inseguimento dell'unico, grande sogno: la scrittura. Letteratura dell'800, film degli anni '90 e Filosofia di ogni tempo sono da sempre i miei compagni più fedeli.