L’emblema dell’umiltà: “I mangiatori di patate”

Storia dell’opera “I mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh

Leggere Irving Stone è il miglior consiglio che si possa dare a chiunque voglia accostarsi, con umile interesse, alla vita e all’arte di Vincent Van Gogh. Deluso, pazzo e (per questo) osteggiato, il pittore olandese ha vissuto sulla sua pelle il dolore e l’umiliazione di essere un perenne escluso, un’anima candida alla ricerca di un posto nel mondo che, per ragioni ogni volta diverse, gli era sempre, costantemente precluso. Stone nelle pagine del suo Brama di vivere (da cui la bella versione cinematografica con Kirk Douglas) ha tratteggiato con semplicità e accuratezza – senza scadere nel patetico tanto caro ai romanzieri-biografi – il difficile carattere di questo «fou rou», esaltandone le doti artistiche attraverso il racconto di una vita misera e perennemente in salita. Qui, più che dalle fredde pagine di un manuale, riusciamo a cogliere appieno la grande umanità che sottende i quadri di Van Gogh, quel sentimento di empatia verso gli umili e gli esclusi che proprio perché “diversi” sentiva affini alla sua esistenza.

Vincent aveva conosciuto il dolore e la sofferenza, non solo per averla provata ma per averci vissuto “dentro”. L’esperienza da predicatore nel Borinage lo aveva infatti segnato nel profondo; la fatica dei minatori e lo sporco del carbone non se ne andavano facilmente. Decise di dedicarsi a ritrarre i poveri, le mani callose per lo sforzo, le guance scavate per gli stenti. I mangiatori di patate è il punto d’arrivo di questo percorso, anche se nasce in un ambiente diverso, anche se lo sguardo si sposta dalle fatiche in miniera a quelle dei campi.

Dopo la tenera ma difficile convivenza con la prostituta Sien, le sopraggiunte – e perenni – difficoltà economiche costrinsero Van Gogh a trasfersi a Neuen, dove il padre lo avrebbe aiutato dandogli uno studio, un pasto caldo e un letto in cui dormire. Vincent preferì però trasferirsi in casa del sagrestano della parrocchia del paese, dove prese in affitto un paio di stanze ed ebbe la possibilità di lavorare a stretto contatto con persone semplici, che sapevano trovare la bellezza nel quotidiano. Mentre lavorava al suo capolavoro, il pittore realizzò moltissimi studi preparatori (le famose Teste di contadino), allo scopo di rendere i suoi ritratti più vivi, «figure difficili da dipingere, ma infinitamente belle». Il più importante di questi è senza dubbio Contadina, ritratto di Gordina De Groot, che mostra le fattezze, realizzate con estrema cura, della donna seduta alla sinistra della tavola de I mangiatori di patate. Gordina era la figlia del sagrestano, con cui Vincent era solito chiacchierare e fare lunghe passeggiate per le campagne. Un giorno la ragazza rimase incinta e il parroco cattolico non esitò ad accusare Van Gogh di essere il responsabile di tale disonore. Vincent si decise allora ad abbandonare Neuen alla volta di Parigi (dove lavorava e viveva il fratello Theo), non senza aver prima ultimato le due versioni de I mangiatori di patate.

La prima, più simile a uno studio preparatorio che a una tela vera e propria, presenta i medesimi soggetti del celebre dipinto, ma mancano i chiaroscuri, e soprattutto il deciso contrasto tra luce e ombra. È nella versione definitiva, quella datata 1885, che si può osservare il grande balzo in avanti, la decisiva summa di tutti gli studi precedenti. In un interno dai mobili grezzi, cinque contadini sono riuniti intorno ad un tavolaccio di legno, intenti a consumare una parca cena alla luce fioca di una lampada a olio sospesa sopra le loro teste. I commensali mangiano patate – oro come la sola ricchezza che possiedono – direttamente dal piatto di portata, mentre una donna versa caffè nero in alcune tazze. I colori, bui e cupi, rimandano all’influsso della pittura fiamminga, e la flebile luce restituisce il senso di una sacrale intimità, come se i contadini ritratti, all’interno delle loro quattro mura, potessero riscattarsi dalla condizione di miseria in cui vivono. Forte è infatti la dignità che traspare dalle loro espressioni, dai gesti rozzi e decisi, dalle mani dipinte in modo quasi caricaturale. Il cibo, per quanto poco sia, è la giusta ricompensa per chi ha faticato, è una sorta di sacramento amministrato su un tavolo-altare che di sacro ha ben poco, eppure ne reca in sé l’estrema potenza.

Scrivendo a Theo, Vincent spiegò l’intenzione del suo quadro, i motivi che lo avevano spinto a tale rappresentazione: «Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole». Aggiunse inoltre: «So benissimo che la tela ha dei difetti ma, rendendomi conto che le teste che dipingo adesso sono sempre più vigorose, oso affermare che “I mangiatori di patate”, insieme con le tele che dipingerò in avvenire, resteranno».

Il resto è storia.

 

Vincent Van Gogh, I mangiatori di patate (1885), Olio su tela - 82x114 cm-, Museo Van Gogh di Amsterdam

 

Articolo di Daniele Morali

 

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Redazione Nèa Polis

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