MUCRI, un Museo per raccontare il crimine a Roma

MUCRI, un Museo per raccontare il crimine a Roma
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Via del Gonfalone sembra una vietta anonima, una semplice traversa della storica via Giulia. Unico indizio di una realtà diversa sono delle larghe finestre chiuse da sbarre di ferro, quelle di una vecchia prigione minorile. Oggi è sede del MUCRI, il museo criminologico di Roma.
Al costo di soli due euro, ci facciamo inghiottire da questo universo nero in cui si raccolgono schegge di storie violente, cristallizzate sotto vetro. Tutto ciò che la mente umana ha partorito in fatto di torture e delitti trova all’interno di questo museo una sua nicchia.

MUCRI, un museo per raccontare il crimine a Roma

Ci accoglie la campana del carcere delle mantellate, i cui rintocchi scandivano la giornata delle donne imprigionate nel convento e a cui è stata dedicata anche una canzone popolare “Le Mantellate so’ delle suore, ma a Roma so’ sortanto celle scure. Una campana sona a tutte l’ore, ma Cristo non ce sta drento a ‘ste mura”.
La realtà che viene incontro al visitatore è quella della punizione, l’altra faccia del crimine, declinata nelle forme più varie, talvolta più crudeli del delitto stesso: gogne, una vergine di Norimberga, la cosiddetta “briglia delle comari”, gatti a nove code, scudisci e attrezzi per la tortura di ogni tempo si susseguono dando forma concreta a quanto visto soltanto in libri di storia, frutto di una concezione della pena molto lontana dalla nostra.

E proprio a partire da queste forme arcaiche possiamo ricostruire una sorta di fil rouge, un filo MUCRI, un museo per raccontare il crimine a Romaconduttore che attraversa trasversalmente le stanze di questo primo piano. Dapprima dunque le la pena da come veniva concepita nel Medioevo fino alle età più recenti, caratterizzate dall’uso della tortura e dalla pena capitale, metodi che sarebbero scomparsi soltanto grazie alla riflessione di illustri illuministi italiani, primo tra tutti Cesare Beccaria con il suo “De’ delitti e delle pene”.

 

Ai reperti di tipo generico, si associano oggetti che si caricano di fascino soprattutto per la storia che li circonda: da un lato una piccola sezione interamente dedicata alla vicenda di Beatrice de’ Cenci, responsabile della morte del padre abusante, in cui si conservano oltre ad alcuni documenti storici relativi al processo una spada di giustizia, rinvenuta nel Tevere, identificata come quella che venne usata per decapitare la sfortunata fanciulla; dall’altro una stanza che ospita tre ghigliottine di Chieti, Roma e dello Stato Pontificio che restò in Piazza del Popolo fino al 1869, il mantello rosso scarlatto del boia di Roma Mastro Titta affiancato dagli “attrezzi del mestiere” come l’ascia per la decapitazione.

Salendo al piano superiore si entra nel vivo di un vero e proprio racconto dei delitti che hanno segnato la storia d’Italia tra Ottocento e Novecento. In una teca che incontriamo immediatamente si conserva una pistola: si tratta della rivoltella con la quale l’anarchico Gaetano Bresci, tornato appositamente dagli Stati Uniti, uccise re Umberto I colpevole di una violenta repressione. E’ soltanto la prima delle armi di un delitto, appartenente alla mole di materiale che, prima dell’apertura del Museo, veniva utilizzato per la formazione degli studenti della Polizia Scientifica. Particolarmente interessante è che, accanto alla pistola, si conservano gli effetti personali di Bresci tra cui una macchina fotografica, una valigia di cartone, lettere, e le sue scarpe: i piccoli tasselli di una vita intera.

Di fronte a Bresci si collocano le figure di Felice Orsini e dei suoi compagni, patrioti e cospiratori, in un dialogo a più voci contro l’autorità violenta e dispotica: Orsini, infatti, ideò un piano per uccidere Napoleone III (mirabilmente raccontato, tra l’altro, dal film “Noi credevamo”di Mario Martone”), destinato al fallimento e a condurlo alla ghigliottina.
Dai delitti si passa al loro studio o meglio allo studio dei delinquenti: nasce con Cesare Lombroso l’antropologia criminale.

Studio di tatuaggiMorfologia del volto, disposizione del naso e delle orecchie, grandezza del cranio, tatuaggi: tutti segni esteriori di una tara, della disposizione al delitto. Così sulle pareti cominciano a comparire le prime foto segnaletiche, confronti tra diverse fisionomie e corpi coperti di disegni, le immagini che accompagnano la nascita e lo sviluppo di questa disciplina. E poi strumentazioni per rilevare impronte, cassettine piene di flaconi di droghe, le armi dalla parte degli investigatori.

 

 

Siamo giunti così all’ultimo piano e alla terza sezione del Museo, quella più “intrigante” per l’eterogeneità dei temi e degli oggetti conservati e, forse, anche perché siamo arrivati al pieno Novecento. Della realtà del carcere ci colpiscono quelle che Lombroso chiamava “malizie carcerarie”, strumenti e tecniche inventati dai detenuti per nascondere sigarette, produrre delle piccole armi, scambiarsi messaggi o cercare di inviarne verso l’esterno ma anche per costruire uno strumento musicale con cui intrattenersi. Usciti da qui ci ritroviamo in una stanza strana, che sembrerebbe piuttosto la sala di un insolito museo di arte in cui vasi cinesi e reperti archeologici si affiancano a violini e oggetti della più disparata provenienza:saremmo tentati di proseguire oltre, come se fossimo usciti dal MUCRI, ma in realtà ci troviamo di fronte alle sale dedicate al furto e al falso, colme di oggetti rubati e di copie di opere d’arte.

L’ultima tappa è di fronte a quello che si può considerare un enorme archivio dei delitti più efferati del Novecento, presentati attraverso gli indizi e le prove che ne hanno accompagnato al risoluzione o che li hanno visti affondare nell’oblio di un mistero insolubile.

Sito del MUCRI

 

Sara Fabrizi

Sara Fabrizi

Sara Fabrizi

Classe '92, laureata in Filologia Moderna all'Università di Roma "La Sapienza", redattrice per NéaPolis e Tutored. Gestisco due blog "Parole in viaggio" dedicato all'arte e ai luoghi d'Italia e "Storie dal cassetto", raccolta di racconti brevi soprattutto a carattere psicologico. Un mio racconto "Il battesimo del fuoco" è stato selezionato e pubblicato nell'antologia "I racconti di Cultora. Centro-sud" seconda edizione per Historica edizioni nel 2015. Sono membro fondatore dell'associazione "La parola che non muore" e responsabile dell'ufficio stampa per il Festival omonimo a Civita di Bagnoregio, inaugurato nel 2015.