Why so happy?

Why so happy?

 

Una rapida digressione tra diversi livelli di lettura della gioia per la vittoria delle volpi.

 

Il Leicester ha vinto il campionato, nel giorno dei lavoratori.
Non sono la persona più adatta per spiegare a nessuno di voi come é successo, perché e successo né se succederà ancora. Quello che mi piacerebbe fare in questo pezzo é cercare di indagare sul sentimento legato a questa singolarità; facendo un rapido viaggio attraverso la deontologia del calcio, l’approccio alla gioia e le possibili motivazioni della stessa.

Ho iniziato a prendere appunti per scrivere questo pezzo un mese fa, davanti a una birra e una sigaretta in una rara giornata di sole a Deptford (Londra). Era il pomeriggio del 4 aprile e i ragazzi di Ranieri avevano vinto il giorno prima in casa, 1 – 0, contro il Southampton. Il Tottenham aveva pareggiato a Liverpool e lo scudetto era ancora da vincere, ma la sensazione era che l’impresa fosse davvero vicina.
Ormai da qualche mese si vedevano, anche a Londra, ragazzi con la maglia di Vardy e mi sono trovato a chiedermi da dove venisse la gioia al pensiero delle volpi campioni di Inghilterra.

Perché ero contento?
Il fatto che fossero degli underdog (sfavoriti se si prova a tradurlo), era una risposta che mi sembrava logica ma che non riusciva a soddisfarmi completamente, avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di più. Per capire meglio le ragioni legate a quelle sensazioni era però necessario andare a capire meglio la natura del sentimento.

Partiamo dal presupposto che la gioia, come tutti i concetti, penso abbia un valore d’uso e un valore di scambio, per citare Marx. Il valore d’uso é la percezione personale che ognuno di noi ha di una determinata parola: quell’insieme di pensieri che ne sono associati. Il valore di scambio é il significato che assume la parola in un determinato contesto e che varia da situazione a situazione. Ho quindi dovuto andare a capire quale fosse per me il valore d’uso della parola gioia quando applicata al Leicester. Dovevo prima capire io quel significato, per poi poter cercare di descrivere il valore di scambio.
Dopo ogni partita da quel 4 aprile in poi mi sono fermato almeno dieci minuti per cercare di capire cosa stessi provando. Era quasi una meditazione, un momento di solitudine con le mie emozioni: volevo provare a capire perfettamente ogni singola sfaccettatura di quei momenti. Non facile. La prima cosa di cui mi sono reso conto é stata che la felicità della possibile vittoria del Leicester, non era un naturale sfogo positivo di un sentimento negativo verso qualche altra squadra. Non volevo che perdesse il City, per esempio, o l’Arsenal. Non stavo tifando contro nessuno, stavo tifando a favore.

Ero dunque un tifoso dei Leicester?
Era la stessa sensazione di quando i miei Lakers vincevano gara 7 nell’ormai lontano 2010? O la sensazione al secondo gol di Milito contro il Bayern? Che anno il 2010.
No, non era niente di paragonabile a quei sentimenti. Era un vettore dissimile per direzione, verso e intensità.

Quando tifi una squadra sei naturalmente incline a vedere il diretto avversario come nemico, tifi quindi sia in positivo per i tuoi ma hai anche un naturale sentimento di inimicizia verso gli avversari. Questa negatività, questo astio, non lo riscontravo nei confronti di chi giocava contro il Leicester. Avevo la sensazione che non ci fossero mai dei cattivi nella storia, sembrava solo un grande allineamento di pianeti. Tutti giocavano il loro ruolo: come in una performance alla Royal Opera House, con gli dei del calcio come sceneggiatori.
Il mio era quindi un tifo a favore. Ma ancora una volta, perché? Perché ero contento per un gruppo di cui fino a l’anno prima conoscevo a malapena l’undici titolare? La prima risposta che uno si potrebbe dare, e che ho gia citato poco fa, é legata al fatto che tutti noi siamo inclini a sostenere gli sfavoriti. Sembra quindi questo il motivo principale della mia gioia. Un motivo tanto banale quanto possibilmente complesso. Come sedere davanti ad un testo sacro e cercare di comprendere e distinguere la pluralità dei livelli di lettura dello stesso.

E allora perché non cercare di usare lo stesso modus operandi che veniva usato nel Medioevo proprio per analizzare i livelli di comprensione dei prodotti della letteratura? Proviamoci.
I quattro livelli identificati erano: letterale, allegorico, morale e anagogico.

 

LETTERALE
Il livello di lettura letterale é ovviamente legato all’aspetto più superficiale di un libro e, in questo caso, della mia felicità. Si riferisce normalmente alla parte narrativa del libro. Io ero dunque felice perché aveva vinto una squadra che sperava di non retrocedere. Avevano vinto ed erano allenati da un italiano. Fin qui tutto facile.

 
ALLEGORICO
Il secondo livello é più legato al simbolismo che possiamo associare al Leicester. Immagino di essere contento perché per me quei ragazzi simboleggiano qualcosa. La squadra senza un grosso potere economico rappresenta nell’immaginario collettivo il calcio vero, quello senza sovrastrutture finanziare. Il calcio dei ragazzi al campetto dopo scuola. Penso sia quello il significato allegorico.

 

MORALE
Per andare a capire il significato morale mi sono trovato di fronte alla necessità di pormi delle domande sulla deontologia del calcio, o almeno del mio valore d’uso della stessa.
Prendiamola larga.
In un bellissimo paper accademico intitolato “The Appeal of the Underdog” il professore Joseph Vandello spiega alcuni aspetti psicologici del fascino che tendiamo ad avere per gli sfavoriti. Uno dei più interessanti é legato al fatto che per far sì che le persone tifino per te, non solo devi essere teoricamente il più debole. Devi anche essere il più povero. Il fatto di essere più poveri oltre che tecnicamente più scarsi, apre teoricamente dei canali di empatia speciali nella mente degli spettatori. Ma ancora una volta ero interessato al motivo per cui sapere che una squadra abbia pochi soldi debba portarmi ad empatizzare per la stessa.


Una possibile lettura morale della storia umana, prima che calcistica, del Leicester é venuta fuori da una discussione con la mia ragazza, francese di nascita, Lockiana per scelta.
La sua visione della moralità della storia era legata al concetto di ascensore sociale. Trovava molto interessante il fatto che per una volta avevamo la possibilità di assistere al fenomeno di scalata sociale di un intero gruppo. Per lei gran parte dei tifosi simpatizzava con le volpi per il fatto che fossero persone come noi che stavano riuscendo in un’impresa. Non era la storia di uno dei tanti wonderkid che proveniva da un contesto sociale particolare, era la storia di un gruppo di gente che non aveva mai eccelso e che ora si trova a vivere un sogno. Il punto era che stavamo assistendo tutti ad un percorso di ascensione sociale che normalmente non coinvolge un gruppo ma una molteplicità di singoli, e che normalmente non in toto é sotto i riflettori.
Ma la mia lettura morale del libro Leicester era diversa. Come é normale che sia, sono nato a Livorno e sono sostanzialmente lontano dalle idee di Locke.
Qui si arriva al momento dove provo a fare un attimo di ricerca su quella che penso possa essere la deontologia del calcio. Si perché per me esiste una deontologia del calcio. Non credo nel cinico utilitarismo teorizzato da Bentham.

E non posso quindi credere che il calcio debba adottare una filosofia utilitaristica. Se esiste dunque un’etica deontologica, vuol dire che esiste anche un codice etico calcistico.
Ancora una volta mi trovo a fare riferimento a quel concetto di valore d’uso per le parole e provo a spiegare quello che io penso essere l’etica del calcio.
Il calcio é uno sport popolare. Fin qui, qatarioti esclusi, dovremmo essere tutti d’accordo. L’essenza stessa del calcio é popolare: la sua adattabilità a superfici diverse, numero di giocatori indefinito e a palloni di diversa natura e grandezza, lo rende sicuramente uno dei giochi più popolari che uno possa pensare.
È uno sport di squadra, invita all’aggregazione e premia il gruppo prima dell’individuo. Il calcio é uno sport popolare. Il codice etico é quindi un codice etico di tipo popolare, una deontologia che si basa sul ripudio della speculazione, sulla bellezza della condivisione.


Ma ormai popolare vuol dire POP, popolare vuol dire MTV o One Direction. Ormai quando si pensa a un qualcosa di popolare é più facile che vengano in mente delle web star piuttosto che la lotta di classe. E ormai anche nel calcio si parla più di popolarità come sinonimo di fama. Di “veramente popolare” non c’é più quasi niente nel calcio. O forse sì. Nell’esatto momento in cui stavo appuntandomi con tristezza il fatto che l’etica intrinseca del calcio venisse giornalmente maltrattata, mi sono reso conto della mia lettura morale della storia del Leicester.

La storia del Leicester é una delle ultime storie che parlano di calcio come di uno sport popolare. Parla di calcio giocato da gente che lavorava in fabbrica, parla di calcio allenato da un signore accondiscendente che sorride davanti alle bravate dei giocatori, parla di un calcio giocato da gente che per divertirsi va al pub, a Leicester, non a Marrakech con il jet privato per incontrare altri amici milionari.

La storia scritta dalle volpi non é solo un’eccezione tecnica, é una vittoria per il calcio popolare, una dimostrazione che l’etica deontologica calcistica non é ancora morta. O almeno, questa é la mia lettura morale del tutto.

ANAGOGICO
Per poter anche solo iniziare a cercare il livello interpretativo anagogico é necessario credere quantomeno in una teologia calcistica. Non mi spingo cosi oltre. Dico solo che se esiste una lettura anagogica della storia non può che essere che gli dei del calcio vogliono meno miliardari e più
ragazzi sorridenti in campo. O forse é solo una mia speranza. Probabile.
Chiudo sperando che almeno parte di quello che ho scritto sia vero. Per un solo motivo, che non é la necessità di aver ragione. Spero che il Leicester sia simpatico ai tanti non solo perché era un underdog, perché se cosi fosse, come dice Ricky Gervais, una volta che vinci non sei più un underdog e torni nell’oblio mediatico. Spero il Leicester sia qualcosa di più, spero venga ricordato almeno in parte come lo ricorderò io, un romantico esempio di Donchisciottismo calcistico.

 

 

 

 

Scritto da Francesco Bellanca

Edito da Alessia Agostinelli

 

Alessia Agostinelli

Alessia Agostinelli

Laureata in filosofia e amante del cinema e della letteratura, sempre in giro per il mondo all'inseguimento dell'unico, grande sogno: la scrittura. Letteratura dell'800, film degli anni '90 e Filosofia di ogni tempo sono da sempre i miei compagni più fedeli.