Conversazione con Pablo Echaurren

Conversazione con Pablo Echaurren

Conversazione con Pablo Echaurren

a cura di Sara Fabrizi

 

– Pittore a 18 anni, autore di fumetti d’avanguardia e romanzi, una passione per il basso elettrico e l’impegno politico. Come stanno insieme tutti questi elementi nella sua esperienza e nel suo vissuto?

Conversazione con Pablo Echaurren
Pablo Echaurren

Intanto, come si è detto più volte, viviamo nel tempo dell’arte e della sua riproducibilità quindi ritengo che l’arte non debba essere un atto solitario, isolato, elitario. In secondo luogo, intendo l’arte non come un fine ma come un mezzo, come uno strumento, come qualcosa che permetta di esprimere il proprio punto di vista sulla realtà che ci circonda; quindi, in questo senso, qualunque medium va bene,non credo che esista una divisione tra alto e basso, tra arte nobile e ignobile anche se in Italia il mondo dell’arte tende a praticare questa divisione.

       Comunque abbiamo una tradizione piuttosto proterva nella divisione tra generi, arti…

Malgrado noi siamo la nazione in cui è nato il Futurismo, il primo -ismo che rompe tutti gli steccati, che davvero permette a chiunque, anche senza titoli accademici, anche senza militanze nel sistema dell’arte etc, permette a chiunque di praticare forme espressive, figurative, letterarie etc..

-Parlando della sua biografia, che significato ha avuto per lei essere diciamo “figlio d’arte”, in che rapporto si è posto con questa origine?

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Gianfranco Baruchello, foto di Dino Ignani

Sostanzialmente nessuno. Nel senso che al massimo possiamo parlare di una convivenza, da ragazzino, con pareti di casa più colte delle altre case dei miei amichetti: quadri di arte contemporanea, intendo. Ma oggettivamente io non ho avuto particolari rapporti con mio padre che avessero a che vedere con l’arte: lui se ne è andato che io avevo 3 anni quindi…e dopo non c’è stata una frequentazione.

Viceversa io a queste cose arrivo non attraverso di lui, ma attraverso un incontro di me adolescente con Gianfranco Baruchello, il quale mi ha preso sotto la sua ala in un momento in cui non pensavo neanche lontanamente di intraprendere questo tipo di percorso. Invece lui, da adulto qual era, mi ha affascinato con i suoi disegni, con queste sue immaginette, con queste sue quasi “enotmologie” di immagini.

       Infatti il suo voler essere entomologo…

Questo quando io dico “ volevo essere entomologo” è perché davvero volevo essere entomologo da

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Arturo Shwartz, foto di Dino Ignani

ragazzino. Però appunto probabilmente una consonanza di particolari, di minuzie io l’ho trovata immediatamente in queste ampie pagine bianche di Baruchello. E’ lui che mi ha aperto un mondo, che mi spiegato cose che forse avrebbe potuto spiegarmi mio padre ma che non aveva fatto, e quindi davvero Gianfranco è stato il tramite tra me e questa per me nuova realtà, questo percorso, questa deriva. E subito io mi sono messo a copiare, in maniera ovviamente più rozza, quelle sue stupende pitture a smalto. E’ stato poi sempre lui che immediatamente mi ha portato da Arturo Schwarz, il primo gallerista: Schwarz da subito (avevo 19 anni) ha comprato quello che facevo il che mi ha permesso di considerarmi a tutti gli effetti un artista quando ancora andavo a scuola e immediatamente dopo la maturità mi ha dato la possibilità di andarmene via di casa. Senza di lui, senza Baruchello, niente sarebbe stato possibile.
Non ci avrei proprio pensato, in questo senso. Non è poi detto che questo sia stato un bene, ma così è andata la vita.

 

– Alla GNAM apre la mostra “Contropittura”: un titolo che si ricollega ad un tema che lei ha trattato anche in un suo saggio “La controcultura in Italia” e c’è una sezione proprio dedicata a questo tema. Cosa significa oggi fare Controcultura?

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“La controcultura in Italia” a cura di Pablo Echaurren e Claudia Salaris

Si tende a definire “contro” qualcosa che in qualche modo polemizza, discute lo stato presente delle cose. Io penso che ‘artista non è qualcosa di diverso dal resto dell’umanità. È un po’ come un operaio: l’operaio è sensibile alla propria condizione, non lascia che siano sempre gli altri a decidere per lui, vuole…vorrebbe avere voce in capitolo. Se lo licenziano, se lo mettono in condizione di difficoltà, se lo sfruttano oltremodo, l’operaio sciopera, si allea con gli altri, si organizza, protesta, rivendica i propri diritti. Credo che questo sia il minimo che uno debba fare per salvaguardare la propria condizione, non capisco perché gli artisti raramente trovino l’occasione, la volontà, le ragioni di comportarsi allo stesso modo, di mettersi insieme tra di loro, di discutere sui propri destini, sulla condizione che si trovano a vivere, sull’assetto del meccanismo che determina poi la loro stessa esistenza.

Che poi questo punti di vista venga chiamato “controcultura” è un accessorio, una semplice definizione di comodo. Penso che dovrebbe essere la normale condizione di ogni artista, quella di discutere sulla propria condizione esistenziale e lavorativa. Perché dal lavoro dipende la sopravvivenza economica, fisica.
A parte la sopravvivenza fisica oggi i soldi determinano la possibilità di esprimersi. Il lavoro di artista oggi è diventato anche costoso; una volta si potevano fare telette 20×20, oggi invece è una specie di guerra nucleare in cui più sono grandi i manufatti, più sono sofisticati dal punto di vista tecnico e più sono d’impatto. Il confronto con gli altri passa anche attraverso la possibilità di dispiegare i propri mezzi.

– Possiamo considerare questa mostra quasi un bilancio complessivo?

Intanto la mostra ha un suo taglio, che è quello voluto dalla curatrice, Angelandreina Rorro, che mi trova…beh… perfettamente d’accordo. Nel senso che io ho fatto tante… abbastanza antologiche, nel senso mostre che mettono insieme un po’ tutto il lavoro che uno ha svolto. E in queste mostre precedenti c’era veramente di tutto, forse pure troppo perché io davvero ho fatto tante cose diverse.

Questa qui fa un po’ di pulizia e secondo l’ottica della Rorro dà un filo rosso che attraversa tante cose che qui non ci sono e mette insieme pezzetti della mia vita, ricostruendo un percorso unico, in questo mi riconosco anche di più di altre cose fatte in passato. In qualche modo restituisce un’immagine di me che non molti hanno, perché molti hanno di me l’immagine magari di uno che ha giocherellato coi media; qui forse appare anche di più un lavoro inerente all’arte stessa, che entra in dialettica con il fare arte. Sempre restando il fatto che la parola arte a me non fa molto piacere, la trovo un po’ desueta, vecchia…inutile.

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   E lei come la chiamerebbe?

Ah possiamo chiamarla Franco, Andrea, non lo so… ripeto penso veramente che sia espressione, che sia mezzo, che sia strumento. E quindi nella parola Arte c’è un qualcosa di Alto, di Altro rispetto alla Creatività.
Io penso invece che la creatività sia un dato caratteristico dell’essere umano in quanto tale non di una casta che se ne fa interprete.
La creatività appartiene a tutti.
La creatività è sopravvivenza. L’uomo preistorico per sopravvivere ad un ambiente ostile doveva attivare e ha attivato la sua creatività, ha costruito la freccia, ha scoperto il fuoco…
Nello stesso modo l’uomo contemporaneo trova meccanismi di rappresentazione di sé in quella che viene chiamata Arte.

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Oggi poi veramente rispetto ad un recente passato, 40 anni fa a Roma ci saranno stati, che ne so…300-400 artisti tra tutte le tendenze. Oggi saranno 6000, qualcosa del genere. È talmente sempre più diffusa che è anche stupido immaginare l’arte come qualcosa di alto o irraggiungibile, altero.

-Qual è la sua opinione, la sua visione riguardo l’attuale scenario artistico in Italia?

Da una parte c’è una visione a compartimenti stagni che non fa bene, anzi fa male.
Dall’altra c’è un accodarsi continuo alle scelte fatte altrove, penso all’Inghilterra o agli Stati Uniti. E la cosa peggiore in questo accodarsi e non avere una visione d’insieme delle varie espressività c’è un sostanziale disprezzo per gli artisti locali. In questo disprezzo per gli artisti locali non c’è una visione internazionale, ma una visione provinciale nel senso che, generalizzo, le istituzioni americane promuovono gli artisti americani e li rendono internazionali. E nel promuovere gli artisti “loro” non fanno del bieco localismo, ma internazionalizzano le proprie intelligenze locali. Noi se promuovessimo i nostri, se le nostre istituzioni promuovessero i nostri artisti, li portassero all’estero, li considerassero alla stregua di chi viene da mercati più fortunati e attrezzati, allora sì che sarebbero istituzioni “internazionali”. È solo mostrando la volontà e la forza di sostenere e valorizzare i propri talenti, sapendoli difendere che si può essere internazionali. A quel punto mettere tutti nelle condizioni di confrontarsi non dico alla pari ma con forze almeno bilanciate.
Sarebbe quindi auspicabile che ogni Nazione, ogni identità, ogni diversità, desse vita ad una rappresentazione particolare del mondo. E in queste diversità, nell’unione di queste molteplicità che si trova un valore aggiunto, non nell’essere tutti accodati ad un cliché unico dettato da un mercato omologato.

 

 

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Sara Fabrizi

Sara Fabrizi

Classe '92, laureata in Filologia Moderna all'Università di Roma "La Sapienza", redattrice per NéaPolis e Tutored. Gestisco due blog "Parole in viaggio" dedicato all'arte e ai luoghi d'Italia e "Storie dal cassetto", raccolta di racconti brevi soprattutto a carattere psicologico. Un mio racconto "Il battesimo del fuoco" è stato selezionato e pubblicato nell'antologia "I racconti di Cultora. Centro-sud" seconda edizione per Historica edizioni nel 2015. Sono membro fondatore dell'associazione "La parola che non muore" e responsabile dell'ufficio stampa per il Festival omonimo a Civita di Bagnoregio, inaugurato nel 2015.