La colazione nell’antica Roma
Lo “jentaculum”, il primo pasto della giornata
La prima colazione è il pasto più importante della giornata, e lo sapevano bene anche gli antichi Romani, che chiamavano il pasto del mattino jentaculum.
La tavola della colazione era ricca di alimenti non troppo diversi da quelli nostri, poiché anche i romani preferivano i gusti dolci a quelli salati da consumare appena dopo il risveglio.
La colazione degli antichi Romani era composta da latte, acqua, biscotti, miele, pane e formaggi, quando questi alimenti erano disponibili, oppure da biscotti intinti nel vino o dagli avanzi della sera precedente, consumati freddi o appena riscaldati sul fuoco.
La grande differenza con le colazioni moderne è la quantità del cibo consumato.
I medici nutrizionisti consigliano oggi di consumare una colazione abbondante, un pranzo moderato e una cena leggera.
Nella nutrizione dell’antica Roma questo ordine era totalmente invertito. Il jentaculum era leggero, e doveva essere preceduto da un abbondante bicchiere d’acqua. In questo modo lo stomaco non si appesantiva e si poteva lavorare con più energia.
Il pranzo, prandium, comprendeva pane, pesce, carne o frutta. Un po’ più corposo della colazione, di certo, ma anche in questo caso senza esagerare.
Era concepito come uno spuntino, una pausa dal lavoro, spesso mangiato in piedi, tra una faccenda e l’altra. Non molto distante da quello che facciamo abitualmente oggi, in fin dei conti!
Il pasto più importante e abbondante era sicuramente la cena, suddivisa in diverse portate.
I più ricchi, i patrizi, iniziavano a mangiare intorno alle 17:00 e prolungavano la cena per diverse ore. In caso di festa o di ospiti non si alzavano da tavola prima dell’alba.
Le cene erano suddivise in tre portate:
- gustatio, ossia gli antipasti, a base di ostriche, uova, verdure cotte in maniera particolare;
- primae mensae, piatti a base di pesce o carne molto elaborati, conditi con spezie e verdure;
- secundae mensae, che includevano frutta secca, dolci e frutta per finire il pasto.
Articolo di Daniele Morali