Alla scoperta di Caprarola
Sul lago di Vico, nel nord del Lazio, in provincia di Viterbo, si trova un piccolo borgo: Caprarola.
Situato all’interno di una riserva naturale che si estende per ben 4000 ettari, un tempo era conosciuta come Selva Cimino. Leggenda vuole che Ercole, mentre passeggiava tra i Monti Cimini, fu invocato dai pastori che si lamentavano a causa della scarsità d’acqua, utile per loro ma soprattutto per le loro greggi; così il possente semidio piantò la sua clava sul terreno e togliendola fece sgorgare l’acqua. Da lì nacque il Lago di Vico.
Ai tempi dei romani, questi luoghi erano inaccessibili. Fu il console romano Quinto Fabio Massimiliano Rulliano a stanziarvisi, sconfiggendo così gli Etruschi, che fino ad allora popolavano quelle foreste.
Di Caprarola si hanno notizie degli insediamenti che insieme a Ronciglione (altro piccolo borgo) popolano i Monti del Cimino, solo intorno a quel periodo, l’undicesimo secolo circa.
Durante il Medioevo si ebbe un periodo florido poiché fu contesa da potenti famiglie: gli Orsini, i Vico e gli Anguillara. Nella seconda metà del Quattrocento le cose cominciarono a cambiare: Caprarola venne affidata al vicariato Riario-Della Rovere, che acquistò l’antico castello e lo ampliò fino alla sua forma attuale, il Palazzo Riario.
Caprarola ebbe il suo massimo splendore intorno al XVI secolo, quando la famiglia Farnese, con la costituzione del Ducato di Castro, cominciò a costruire sfarzose ville e castelli, e fu in quel periodo che fu edificato Palazzo Farnese.
Edificato nei primi anni del 1500, questo palazzo è un esempio di opera manierista. Fu dimora della famiglia Farnese.
La realizzazione fu affidata ad Antonio Sangallo il Giovane, un architetto italiano che progettò la rocca pentagonale; purtroppo, i lavori furono interrotti a causa della morte dello stesso e furono ripresi dopo 15 anni dal Vignola. Questi modificò il progetto originale e, da fortificazione, divenne un imponente palazzo rinascimentale, per poi successivamente mutare in residenza estiva del cardinale e della sua corte.
Caprarola non è famosa solo per il suo imponente palazzo. Difatti è già suggestivo entrare nel paese, collegato da un ponte che unisce la collina con il centro storico; qui possiamo visitare la chiesa di Santa Teresa Caprarola, realizzata da Girolamo Rainaldi su ordine del cardinale Odoardo Farnese. La struttura, collocata di fronte la facciata sud di Palazzo Farnese, e la sua facciata dai colori chiari si distinguono sul verde intenso della collina; facciata abbastanza particolare poiché ricorda le architetture venete per le serliane laterali.
Se siamo amanti della natura, immersa nella Riserva Naturale del Lago di Vico, possiamo ammirare la faggeta del Monti Cimini e percorrere uno dei molti itinerari presenti. Uno in particolare ,circondato dal mistero: quello che ci porta al Pozzo del Diavolo.
Cavità di origine vulcanica posta alla sommità del Monte Venere è l’unica grotta nota nel Lazio di origine vulcanica formatasi, per l’appunto, per svuotamento di massa lavica. Camminando per circa 40-50 minuti dalla base del Monte si può arrivare alla grotta, che è accessibile con un imbocco di circa 10 metri. All’interno, agli inizi degli anni ‘70 furono ritrovati dei frammenti di vasi, riconducibili tra la seconda metà del V e IV secolo a.C. che adesso sono conservati nel Museo Pigorini di Roma.
Caprarola è inoltre famosa per le nocciole. Tra la fine d’agosto e la prima di settimana di settembre viene celebrata “La Sagra della nocciola”.
Una nocciola particolare e autoctona che risalirebbe ad un’epoca pre-romana, la Tonda Gentile, che venne coltivata solo a partire dal XV secolo e dal 2009 vanta di essere un marchio Dop. Il clima mite e il territorio di origine vulcanica permettono la crescita di questa prelibatezza.
Oltre a mangiare la nocciola così com’è, allo stato naturale, vengono preparati a Caprarola dolci e altre squisitezze: vellutata di nocciole, crema di cioccolata alle nocciole, tozzetti, amaretti, ciambelle, maritozzi e la pizza di pasqua, una torta salata tipica del centro Italia.
Articolo di Daniele Morali